Origini e testimonianze storiche

Protagonista indiscusso dei festeggiamenti civili che nel Levante si celebrano in onore dei santi patroni è il mascolo, o "antico mortaletto ligure", piccola bocca da fuoco a salve ad avancarica nata secoli fa come parte costituente dei primi rozzi cannoni a retrocarica ed in seguito, una volta resasi obsoleta nella pratica bellica, adattata all'uso rituale sostituendo le sue peculiarità di arma con quelle di strumento festaiolo.


Etimologia

Dal Vocabolario Etimologico del Pianigiani (1907, editori Albrighi & Segati, oggi disponibile su etimo.it, da cui sono state estratte le seguenti copie fotostatiche del testo originale) riportiamo un estratto dalla voce "mascolo":

Màschio e Màscolo:  provenzale e antico francese mascle, masle, moderno francese mâle; antico spagnolo masclo, maslo; detto per màscolo (tuttora usato in dialetto): dal latino màsculus, diminutivo di màs (genitivo màris) maschio che vuolsi della stessa famiglia dello zendo mashya, mashjâha riflettente un sanscrito mânushya [confronto col gotico manniskas, o antico tedesco mennisc] virile, da mànus [uguale al gotico mamma e antico alto tedesco man] uomo e propriamente il pensante dalla radice ma- e man- pensare (vedi Mente e confronta Marito).

Sostantivo Quello de' due sessi che feconda l'altro; per similitudine quella parte di ogni strumento ed ordigno destinato ad essere inserito nel vuoto di un altro.

 
 
      

Le origini: sviluppo e declino del cannone a mascolo 

Sulle origini della polvere nera è stato scritto molto, e da molti. Abbiamo deciso di riportare qui di seguito un estratto, capolavoro di rigorosa concisione, dall'autorevole opera di Tullio Seguiti "Le Mine nei lavori minerari e civili", Edizione della Rivista L'Industria Mineraria, Roma 1969, riportato da Edoardo Mori nel suo sito earmi.it:

"Sembra che già nell'antichità fossero conosciute miscele di sostanze capaci di esplodere, la cui invenzione viene attribuita da alcuni ai Cinesi, da altri agli Indiani e da altri ancora agli Arabi, ma notizie di qualche attendibilità sono solo quelle che fanno risalire all'VIII secolo l'uso del miscuglio di salnitro e carbone da parte degli Arabi per scopi bellici.
Parecchi studiosi moderni concordano nell'accreditare ai Cinesi la scoperta della polvere, come risulterebbe da una ricetta per fabbricarla indicata in un'opera di un autore cinese, Wu Ching Toung Yao, del 1044.
La prima polvere nera, nella quale alla primitiva miscela era stato aggiunto zolfo, aveva circa questa composizione : salnitro 40%, carbone 30%, zolfo 30%. Le proporzioni cambiarono poi rapidamente diventando: salnitro 74%, carbone 15%, zolfo 11%; proporzioni mantenute all'incirca ancora oggi.
Istruzioni per la preparazione della polvere nera si trovano nelle opere di Ruggero Bacone (XIII secolo).
È del 1410 il volume « Feuerwerksbuch » di Abraham de Memmingen, nel quale è citato come scopritore della polvere nera il monaco Bertoldo di Friburgo, soprannominato Schwarz (nero). Per quanto detto avanti si possono nutrire molti dubbi circa la scoperta di Schwarz, della quale vengono perfino indicate date molto lontane fra loro (1320, 1354, 1380). Probabilmente egli ha avuto soltanto il merito di aver diffuso in Europa il sistema di preparazione e di utilizzazione della polvere già usato dagli Arabi.
Fino al secolo scorso [si fa riferimento ovviamente all'Ottocento, n.d.r.] la polvere nera è rimasta praticamente l'unico esplosivo per usi militari e via via anche per usi civili, favorita in ciò dal fatto che la miscela presenta una stabilità e un grado di sicurezza nell'impiego veramente notevoli, che viceversa diminuiscono fortemente quando si cambi anche uno solo dei componenti".

La prima testimonianza storica occidentale sull'esistenza di un'arma da fuoco (probabilmente) funzionante è contenuta in un manoscritto inglese conservato ad Oxford e datato 1326: si tratta del "De Notabilitatibus, Sapientia, et Prudentia Regum " di Gualtiero di Milemete, cappellano del re Edoardo II d'Inghilterra. Una miniatura di questo manoscritto (ivi sotto, tratta dall'enciclopedia "Come funziona", alla voce "cannone", ed. De Agostini, 1979) raffigura un recipiente simile ad un vaso, dal colore dell'illustrazione probabilmente realizzato in bronzo, adagiato orizzontalmente su un telaio in legno. Mediante una canna che porta all'estremità quella che sembra una miccia, o un tizzone ardente, un soldato ne provoca lo sparo. Dalla bocca di questo cannone primitivo fuoriesce un proiettile curioso ed inaspettato, molto simile ad un dardo di balestra dalla testa romboidale e dotato finanche di impennaggi caudali. Nel complesso l'arma può considerarsi come il più antico prototipo di cannone ad avancarica, probabilmente di scarsa efficacia distruttiva e ricavato da un robusto vaso nato per altri scopi.

In origine il mascolo era la parte posteriore amovibile, comprendente la culatta ed il tratto iniziale della canna (la camera di scoppio ed in alcuni casi un tratto di canna sufficiente ad alloggiare il proiettile), dei primi cannoni a retrocarica, sviluppati a partire dal secolo XIV. In altri casi il mascolo conteneva solo la carica di lancio, mentre il proiettile, in particolare quando era di grosse dimensioni, era infilato nella canna dalla bocca. Si otteneva così un sistema misto avancarica/retrocarica. Infine in alcuni casi vi era la possibilità di inserire il proiettile direttamente nella canna per retrocarica, spingerlo all'interno e successivamente posizionare il mascolo come una sorta di antenato dell'otturatore.Nella foto qui sotto, tratta da Wikipedia, direttamente dal Trecento i resti di uno dei più antichi cannoni a mascolo conosciuti. Si riconosce benissimo la culla del mascolo, attraverso cui preliminarmente il proietto era calcato nella canna e successivamente racchiuso posizionando il mascolo e forzandolo contro la parte posteriore dell'arma. Il mascolo è dotato di maniglia per una rapida movimentazione. In alto a destra sta un mascolo di cui è visibile la bocca: questa è lavorata accuratamente a giunto maschio per incastrarsi con sicurezza alla femmina della canna.  

Il mascolo veniva caricato secondo la tecnica dell'avancarica e successivamente solidarizzato al cannone, in genere premendovelo con un cuneo. A tal modo era possibile, pur non avendo a disposizione armi a retrocarica, caricare i cannoni senza dover operare dalla bocca, operazione questa alquanto scomoda se effettuata su cannoni affacciati a feritoie in quanto avrebbe richiesto l'arretramento dell'affusto, il riposizionamento e la conseguente ripetizione da capo delle operazioni di puntamento; inoltre la disponibilità di più mascoli pronti all'uso consentiva di accelerare notevolmente la cadenza di tiro. Punto debole del cannone a mascolo era il collegamento fra il mascolo e la canna: la tecnologia tardo-medioevale non consentiva di ottenere giunzioni solide ed a perfetta tenuta, ragion per cui all'aumentare della potenza dell'arma aumentava anche l'entità delle perdite per sfiati (con conseguente riduzione della pressione raggiunta nella camera di scoppio), dei malfunzionamenti e degli scoppi accidentali dell'arma.

 

  

In alto: un pezzo di artiglieria navale a mascolo del XV secolo e l'illustrazione delle modalità di caricamento; il beneficio operativo di non dover arretrare l'affusto per lavorare dalla bocca è evidente.  In basso: a sinistra un cannone pesante da fortezza; a destra un falconetto da fanteria pesante, antenato dei cannoni da campagna (da website.lineone.net ).

Un interessante sito internet (condottieridiventura.it) fornisce questa descrizione della nascita dell'artiglieria:

"[...] Dal francese artillerie, che deriva dall’antico artillier (fornitore di strumenti bellici), nome collettivo dato alle armi da fuoco pesanti. Le più antiche artiglierie sono dei vasi di ferro che lanciano grosse frecce, di solito incendiarie. Fin dal 1300 si conoscono le prime bombarde, il cui uso è segnalato nel 1311 all’assedio di Brescia: in pratica queste sono ancora piuttosto piccole, fuse in bronzo o costruite con verghe di ferro riunite fra loro come le doghe di una botte. Con l’invenzione della polvere da sparo, si caricano dalla culatta alla quale si assicura, mediante una bietta, il mascolo o cannone ripieno di polvere, dopo avere messo nella tromba una palla di pietra calcare o di marmo. Per far fuoco si accosta al focone del mascolo un’asta di ferro arroventata. Delle bombarde ne parla anche il Petrarca nel 1358; dopo il 1370 bombarde e cannoni sono sempre più comuni in Italia. Grosse bombarde iniziano ad essere impiegate, con successo, nelle operazioni di assedio durante la guerra di Treviso tra veneziani ed austriaci. Le capacità tecnologiche di allora permettono la realizzazione, per fusione, solo di pezzi dalle dimensioni non eccessive. Le bombarde risultano così costituite di due pezzi: la tromba (la canna vera e propria) ed il cannone, che è la parte posteriore dove si mette la polvere".

A conti fatti, una volta perfezionata la tecnologia metallurgica e potendo quindi disporre di fonderie efficienti, gli svantaggi del caricamento a mascolo si rivelarono superiori ai vantaggi, per cui il sistema cadde in disuso, a favore delle armi ad avancarica, fuse in un unico pezzo, più sicure e dalla balistica più efficiente. A chi volesse ammirare dal vivo una nutrita collezione di originali armi a mascolo si consiglia vivamente una visita al Museo del Mare in Darsena a Genova (galatamuseodelmare.it). 

Schema di montaggio di un falconetto a mascolo da fanteria pesante (da ancre.fr): si noti la canna sorretta da una forcella (l'arma era troppo pesante per essere imbracciata durante il tiro, ma abbastanza leggera da non richiedere un affusto su ruote per il trasporto), il mascolo con la maniglia per maneggiarlo e la bietta (o cuneo) da forzare fra mascolo e braga (l'occhiello posteriore) per premere il primo contro la canna ed assicurarne la tenuta.

     

A sinistra: la ricostruzione di un cannone a mascolo da campagna rinascimentale, montato su affusto mobile; in seguito tale arma sarebbe stata soppiantata dai cannoni ad avancarica (da liguriadascoprire.it). Si riconosce l'alloggiamento del mascolo (il "letto" o la "culla") e, a destra, il ceppo e la mazzetta di legno per il caricamento ed il fissaggio del mascolo alla canna.A destra: un mascolo da bombarda (fine XIV secolo) perfettamente conservato presso la II Torre Cesta di San Marino, sede del Museo delle Armi Antiche della piccola Repubblica (museidistato.sm).

      

Due pregevolissime ricostruzioni moderne di armi a mascolo: a sinistra un cannone da campagna su affusto a ruote; a destra una bombarda manesca (un mascolo inastato, antenato del fucile). Queste armi sono repliche museali, ancorché perfettamente funzionanti e collaudate al banco di prova balistico, realizzate e commercializzate dall'associazione Storiaviva (dal sitostoriaviva.it) e collaboratori.

Si conceda allo scrivente la possibilità di riportare una chicca di rara tecnica balistica barocca: Gerolamo Cattaneo (o Girolamo Cataneo con la grafia dei suoi tempi), nel suo manualetto, facente parte della raccolta "Dell'arte militare libri cinque ... ", dal conciso titolo "AVVERTIMENTI, ET ESSAMINI INTORNO A QVELLE COSE, CHE RICHIEDONO A VN PERFETTO BOMBARDIERO, Cosi circa all' artiglieria, come anco a' fuochi arteficiati, DI GIROLAMO CATANEO NOVARESE. Da lui in molti, & diuersi luoghi ampliati, & di nuoue figure illustrati" (1582), afferma le seguenti proposizioni (in un italiano cervellotico per il lettore moderno. Nota del curatore: il testo è riprodotto fedelmente e quelli che oggi sono brutti errori di grammatica al tempo erano fronzoli barocchi e decori stilistici voluti ed approvati dall'autore):

Il caricar poi de moschetti da braga, iquali hanno il buco
da un capo, & dall' altro, si fa in questo modo. Prima si troue
rà il suo mascolo di ferro sopra forcadi parimente di ferro
posto, & quello s' empirà di poluere senza calcarla. Messa la
poluere se gli metterà un coccone, cacciandolo per forza
con una mazza di legno, fatto questo si piglia la palla, met-
tendola nel moschetto da capo, doue ua fitto il mascolo, &
auanti che si metta la palla, si pone un poco di sfilacci, oue-
ro strame nel detto moschetto, accioche la palla uolendo
tirare a basso non caschi fuora: dopò messa la palla, met-
terassi il mascolo, & per far che' l detto mascolo stia ben ser-
rato, & fermo nel moschetto, si metterà fra' l mascolo, & la
braga, vn conio di ferro calcandolo con la mazza; & questo
si fa accioche quando se gli dà il fuoco, il detto mascolo non
esca fuora, & vccida il Bombardiero, & a questo modo cari
cato il detto moschetto da braga, si ha d' auuertire che vo
lendolo scaricare s' ineschi il buco, cioè il fogone che è nel
mascolo, & diasegli il fuoco.

Il moschetto da braga citato altro non è che il falconetto a mascolo rappresentato due figure sopr'anzi, arma da fanteria pesante appiedata, ed era realizzato a quel tempo con la canna in bronzo, lasciando l'impiego del ferro (che al tempo era un materiale più pregiato) per il solo mascolo e per le canne delle armi di maggior calibro, come si evince dal passaggio successivo:

Ma lasciando a dietro i pezzi di bronzo, dirassi delle Bom
barde di ferro
, lequali tutte tirano pietra, & que ste bombar
de vanno incassate in zocchi fortissimi, & ben accommoda
te con buoni traui; & si caricano con mascoli di ferro, iqua-
li vogliono stare benissimo assettati, à fine che venendo il
tempo di dar à quelle il fuoco, la bombarda non respiri il-
che auenendo, ella non farebbe buona operatione; & il suo
mascolo và pieno di poluere senza calcarla. Dopò pieno
che sarà, se le caccierà vn coccone di legno dolce per forza,
come si è detto, & messo il coccone nella bombarda, dietro
al mascolo sia posto vn conio di legno fortissimo, & fitto com
vna mazza à piu potere; ilqual conio sarà fra' l letto, & il ma
scolo, ma tra' l mascolo, & il conio metterassi vna piastra di
piombo, ouero qualche pezzo di scarpa vecchia ( non hauen
do però piombo) perche questo tien che' l mascolo non fa
tanto ribattimento, come farebbe senza, per rispetto del le
gno, & auanti che' l mascolo nella bombarda sia, ui si pone
prima vn poco di sfilacci, o di strame, acciò che la palla non
possa correre fuora, a tal che si ponga la palla, & appresso ad
essa si ponga il mascolo, dopò il conio, ben calcandolo, &
battendolo. Fatto questo mettasi a segno, & si tiri quando
occorrerà il bisogno.

Qui si affronta anche il problema del rinculo impulsivo di un pezzo di grosso calibro contro la parte posteriore dell'alloggiamento (il "letto" o la "culla") del mascolo. Il Nostro suggerisce di porre, fra il mascolo ed il cuneo, una piastra di piombo o, non avendola a disposizione, qualche pezzo di scarpa vecchia, ovvero plausibilmente strati di cuoio.

Il 1571 è un anno cruciale per il Mediterraneo. É l'anno di Lepanto. Interessante dal punto di vista della tecnologia militare è il saggio di Marco Morin intitolato "La battaglia di Lepanto: alcuni aspetti della tecnologia navale Veneziana" (dal convegno Meditando sull’evento di Lepanto. Odierne interpretazioni e memorie, Istituto di Studi Militari Marittimi, Venezia,  2002, su internet all'indirizzo venus.unive.it/riccdst/sdv/saggi/testi/pdf/LepantoTecnologie.pdf). In esso si fa riferimento alla classificazione delle armi da fuoco nelle categorie ad avancarica ed a retrocarica, dando per assodata a quel tempo la superiorità dei cannoni ad avancarica su quelli a mascolo, penalizzati dai già menzionati inconvenienti tecnologici che lo stato dell'arte dell'epoca non consentiva di risolvere. Riportiamo quanto segue:

"Ricordiamo subito che le artiglierie potevano essere divise in due categorie, quelle ad avancarica e quelle a retrocarica. La prima era senza dubbio la più importante in quanto comprendeva i pezzi più grandi e potenti.
[...] Per quanto poi riguarda le artiglierie corte destinate al lancio di bombe, mortai e trabucchi, il calibro indicava il peso della palla di ferro che teoricamente entrava nella sua canna. In realtà sparavano bombe cave, riempite ovviamente di polvere nera e dotate di opportuna spoletta, molto più leggere; un pezzo da 500 libbre aveva così un calibro di circa 385/400 millimetri e utilizzava proiettili del peso a vuoto di circa 130 libbre. Tra i pezzi a retrocarica troviamo il moschetto da braga da 1 libbra, con un calibro di circa 45 mm e lungo intorno al metro, la petriera da mascolo e la petriera da braga da 6 libbre con 70 mm di calibro e una lunghezza, codesta esclusa, di circa 1 metro; la petriera da braga da 12 libbre con un calibro di 95 mm e una lunghezza di 130 cm circa."


Nota linguistica inglese: la culatta dell'arma da fuoco viene tradotta come breech; l'arma a retrocarica in generale è quindi detta breech-loading gun (caricamento dalla culatta); il cannone a mascolo viene indicato come breech-loaded swivel gun (arma da fuoco con caricamento mediante culatta spostabile). Il mascolo da artiglieria viene definito cannon-breech (culatta da cannone), ma si trovano nella letteratura tecnica anche le dizioni preloading chamber, barrel o powder pot. Il mascolo da sparate è invece conosciuto come saluting mortar (questo termine è stato probabilmente coniato dagli antiquari in tempi più recenti).

   In tedesco il mortaretto si chiama Böller.

Nota: queste pagine sono in continuo aggiornamento ed ampliamento. Ringraziamo anticipatamente chi volesse segnalare argomenti, fornire materiale iconografico e/o letterario, suggerire precisazioni o rettifiche al curatore del sito all'indirizzo webmaster@sori15agosto.it. Ogni fonte verrà doverosamente citata.


Alcune testimonianze dell'uso rituale

Come, quando e con quali significati allegorici abbia avuto inizio l'usanza della sparata rituale di mascoli non ci è dato saperlo. Da fonti storiche e letterarie sappiamo tuttavia che l'origine risale quantomeno al XVII secolo. Inoltre è assodato che la tradizione dei mascoli (altrove noti come maschi, masti, mortaretti, mortaletti, trombini...) era un tempo molto più diffusa di adesso, quanto possiamo solo supporlo. Qui di seguito vengono citate alcune testimonianze del passato in cui compare il mascolo rituale.

L'uso del mascolo quale strumento festaiolo può aver avuto inizio come manifestazione sporadica con ricorso ai mascoli delle artiglierie: verificandosi un evento gaudioso si poteva a tal modo fare "botti" con minima spesa. Di questo genere sembrano essere le manifestazioni di giubilo che il Paruta e il Palmerino citano a proposito dell'inizio dei lavori di sistemazione della fontana “Pretoria” di Palermo realizzata tra il 1554 e il 1555. I cronisti ci riferiscono: “[...] il 24 ottobre 1575 “si comincio ad assettare li marmori della fontana del Pretore e si spararono diversi mascoli [...]" (dal Diario della città di Palermo pubblicato on-line su www.pietroales.it/FontPret.htm ).

Negli anni 1647-48 la città di Catania fu teatro di tumulti, i cui dettagli sono contenuti ne "LA RIVOLUZIONE IN CATANIA NEL 1647-48 NARRATA DA UN' ANTICA CRONACA ILLUSTRATA DAL SAC. G. LONGO", la cui edizione digitale è curata da Martin Guy (Catania e Raddusa, maggio 2002, vedi il testo completo all'indirizzo  www.freaknet.org/martin/libri/Longo/rivoluzione.html ). Qui si narra che, presentandosi l'ennesima occasione, il popolo si rivoltò ed i nobili presi dal terrore abbandonarono la città. In seguito l'intervento del vicerè cercò di placare gli animi. A tal proposito si dice, in un italiano desueto, quanto riportato nel riquadro successivo. In calce al testo sotto citato compare la seguente nota del curatore: "Si spararono 200 maschi. La voce maschio è qui usata nel significato del masculu o masculuni siciliano, che è quella sorta di mortaletto che si carica con polvere d'archibugio in occasione di qualche solennità ". I maschi della situazione, neanche a dirlo, sono quindi i mascoli; essere dedicatario di una sparata ad personam era dunque un grande onore in quanto questo abitualmente si tributava solo nelle solennità.

CAP. VIII.
DAL 25 MARZO A TUTTO GIUGNO
   

Il Vicerè scrive lettere favorevoli alla plebe la quale, acconsentendo, accoglie un Governatore straordinario che rimette nella Città la perduta quiete.

[...] Alli 22 si disse che li nobili volevano combattere con li popoli arme con arme e la giornata stabilita era li 23: per questo tutta la Città si mise in arme, onde quelli nobili che erano rimasti in Città se ne fugirono dove erano gli altri! Li 25 venne lettera di S. E. contro li nobili la quale molto era favorevole alli popoli e contro detti nobili. Nello stesso tempo S. E. faceva sentire che avrebbe mandato un Governatore in Catania, per la quale cosa scrisse alli popoli, se lo volevano ricevere. Subito li fu risposto che questo era il gusto delli popoli che volevano nuovo governo. Li 6 di Aprile arrivò in Catania il Sig. Governatore mandato da S. E. Fu ricevuto con grande honore e con sparare 200 maschi e tutta l'artiglieria. Da detto giorno li nobili fuggiti incominciarono a raccogliersi in Città. Detto Governatore mostrò alla Città una lettera mandata da S. M. alla Città di Catania molto affettuosa et amorosa e particolarmente per quelle teste che livarono...........

Altra fonte letteraria secentesca che è doveroso citare è Giuseppe Berneri (1637-1700), con il suo "Meo Patacca" eroe della  tradizione popolare romana (vedi it.geocities.com/mp_pollett/roma-be1i.htm ), che racconta in rima dialettale la preparazione della sparata. Il mortaretto di Meo Patacca era simile ad un pesante boccale cilindrico ("senza panza") da birra, con tanto di manico affinchè "così facil si renne a maneggiallo"; il caricamento avveniva "con gran stento" usando un tappo di legno, presumibilmente cilindrico o troncoconico.  Traspare dal componimento che si trattasse di un residuato bellico in precedenza facente parte di un cannone, e non un mascolo rituale appositamente realizzato (che generalmente non ha il manico). Il sistema di accensione si componeva di una miccia inastata ad una canna, maneggiata come l'attuale bettone. Il testo originale è il seguente:

Piantati i mortaletti in sul terreno,
Ch'è drento, già cominzano lo sparo;
Fan botte, a darne giusto il paragone,
Più d'un moschetto, e meno d'un cannone.

Fatto di bronzo o ferro è il mortaletto,
Grosso, corto, assai greve, e materiale,
E voto in mezzo, e come un boccaletto,
Ma senza panza, è da per tutto uguale;
Verzo il fonno da fianco c'è un buscietto,
E de fora, el su' manico badiale;
Questo puro è massiccio e grossolano,
E largo è quanto ce può entrà una mano.

Così facil si renne a maneggiallo,
Ritto si posa in terra, e ci vuò doppo
Un che pratico sia pe' caricallo,
Che faccenna non è da falla un pioppo;
Di polvere si rimpe, e bigna fallo,
Perché più strepitoso sia lo schioppo;
A forza di mazzate, e con gran stento,
Di legno un tappo se gli caccia drento.

Di questi già, fatta se n'è una spasa
Nel prato, e accanto al buscio piccinino,
Dove asciucca è la terra, e d'erba è rasa,
Di polvere si mette un montoncino;
Quanno è tempo, e la gente esce de casa,
Pe' fa' verzo Castello el suo cammino,
Col miccio in su una canna, come è l'uso,
Dà foco il bombardiero, e volta il muso.

Il cronista genovese Agostino Schiaffino nelle sue Memorie di Genova (1624-1647) negli accadimenti dell'anno 1624 riporta le sparate di Pegli (allora ridente paese rivierasco), laddove i principi Doria avevano una residenza di villeggiatura, in occasione della festività di San Carlo (nota: il toponimo relativo al Santo è ancora presente nell'estremo ponente della "Grande Genova", particolarmente conosciuto per tramite dell'ospedale di Voltri). Nonostante la laconicità della nota, è facilmente immaginabile l'aspetto della sparata, che doveva essere alquanto simile a quelle moderne, con aggiunta di salve di moschetti. In questi tempi passati la polvere nera era prodotta artigianalmente ed in quantità limitate. Le materie prime inoltre erano scarse nel territorio della Repubblica, mancando giacimenti degni di considerazione. Doveva dunque ragionevolmente raggiungere prezzi proibitivi per i comuni cittadini della Repubblica. Non è quindi un caso che le sparate, in cui la polvere si consumava a quintali, fossero offerte dalla famiglia più in vista del tempo. 

"22- La sera de 3 e 4 di novembre il Prencipe Doria, nel suo maggior palaggio in Peggi, per la festa di San Carlo, fece belle luminarie e salva di mascoli e moschetti."

Il sito ufficiale di Marano Lagunare (UD) (comune.maranolagunare.ud.it) riporta una descrizione della locale festa patronale di San Vito (San Vio in lingua locale), in cui compaiono le sparate di mascoli settecentesche. Qui a differenza di quanto accadeva a Pegli la polvere era pubblicamente offerta dall'amministrazione della comunità che ne stabiliva la ripartizione con accuratezza mediante un regolamento scritto. La quantità utilizzata era modesta, circa venti libbre (chiamate alternativamente "lire", al peso di oggi pressappoco dieci chilogrammi), di cui una quota veniva distribuita ai soldati della guarnigione affinchè potessero prendere parte alla festa con i propri moschetti (alternativamente chiamati archibugi). "E non più" conclude perentorio il passo sotto citato: guai ai militari che avessero sprecato un bene così costoso, o se ne fossero intascati una manciata.

"Nel Libro delle Parti, nella Regolamentazione delle spese della Comunità, a riguardo della Festa di S.Vito, si stabilisce: "Per caricare li mascoli, soliti a solennizzare la Festività dei Santi Vito, Modesto e Crescenza, le siano accordate libbre 10 di polvere e non più; lire tre di contadi per la fattura di caricarli nella semola e legna; e altre due lire alla persona che li darà foco e condurrà ove è necessario; e così pure siano bonificate altre quattro di polvere da distribuire ai soldati maranesi nell'incontro di detta solennità, onde possano caricar i loro archibugi e non più" (Libro delle Parti 25.4.1770)."

Con un balzo in avanti giungiamo al signor Henry Beyle, al secolo Stendhal , assurto alla gloria della letteratura immortale con "La Certosa di Parma" e "Il rosso e il nero", di professione diplomatico con la passione per la letteratura. A causa del suo lavoro e della frammentazione dell'italica penisola in epoca preunitaria, Stendhal frequentò tutto lo stivale. La sua curiosità non si esaurì alle sole capitali ed alle città sedi di rappresentanze consolari, ma viaggiò anche per le terre rurali ed i centri minori, riportandone in Francia un'estesa messe di quaderni di viaggio raccolti e pubblicati in più antologie e sfruttati dallo stesso autore come riferimento informativo per le sue composizioni maggiori. A proposito di una festa patronale nella Lombardia prealpina degli inizi dell'Ottocento, incuriosito da un'usanza per lui nuova, scriveva quanto segue:

"Le campane facevano vibrar l'aria da dieci minuti, la processione (*) usciva dalla chiesa, i mortaretti (*) si fecero sentire [...] Bisogna sapere che i mortaretti (*) (o piccoli mortai) non sono altro che canne di fucile segate in modo da non aver che quattro pollici di lunghezza; perciò i contadini raccolgono avidamente le canne di fucile che, dal 1796 in poi, la politica europea ha sparso in abbondanza nelle pianure lombarde. Ridotte a quattro pollici di lunghezza, queste piccole canne vengono caricate di polvere fino agli orli, son poi situate a terra in posizione verticale, e una striscia di polvere va dall'una all'altra; sono ordinate su tre file come un battaglione, e in numero di due o trecento, in qualche luogo vicino a quello che la processione deve percorrere. Quando il Santo Sacramento si avvicina, si dà fuoco alla striscia di polvere, e comincia allora un fuoco di fila di colpi secchi, il più irregolare e il più ridicolo del mondo; le donne sono ebbre di gioia. Niente di più allegro del rumore di questi mortaretti sentito da lontano sul lago, ed attenuato dallo sciacquio delle acque ..." (da "La certosa di Parma", 1839, traduzione di Maria Ortiz, ed. BUR, cap. IX; * in italiano nel testo originale).

Il curatore dell'edizione, Antoine Adam , aggiunge questa nota al testo :

"Nel frammento dal titolo Rivage de la mer, scritto nel dicembre 1818 e che Stendhal ha messo in Roma, Napoli e Firenze, evoca una scena in cui intervengono i mortaretti. Si svolge a Recco. E' la festa del paese. I contadini ballano. Il narratore è assordato dalle fucilate e dai mortaretti sparati in onore della Vergine da questi contadini avari e ladri".

Parole testuali; non ce ne abbiano i recchelini. Sarà gradito colui il quale ci fornirà il testo originale dell'episodio citato, onde eventualmente confutare la versione dell'erudito francofono. In tempi in cui acquistare il metallo per produrli su misura era economicamente proibitivo, Stendhal ci illustra un espediente  per procurarsi gli artifizi a partire dai residuati bellici delle guerre napoleoniche.

Nel primo Novecento l'usanza delle sparate di mascoli era ancora abbastanza diffusa. Interessantissima nota folcloristica a tal proposito è il blog "Il Libro di Orvinio" in cui il sig. Gianni Forte riporta l'opera del concittadino Amaranto Fabriani , vissuto in Orvinio (RI) nella prima metà del secolo ventesimo (librodiorvinio.blogspot.com). Si trova qui la descrizione di un'usanza molto simile alla sparata di mascoli liguri, che lo scrivente si pregia di riprodurre testualmente nel riquadro sottostante. Il mortaretto di Orvinio è funzionalmente identico al mascolo ligure, più piccolo (alto 10 centimetri e largo 5 alla base) e con la parete della canna spessa appena mezzo centimetro in sommità e uno alla base. Il focone ha diametro di cinque millimetri. Possiamo supporre che il mortaretto di Orvinio sia nato espressamente come gioco pirico, in quanto è caratterizzato da dimensioni troppo esili se confrontate con i mascoli utilizzati nell'antico cannone a retrocarica. Differenza fondamentale fra l'esecuzione delle sparate di Orvinio e quelle liguri è l'assenza di riga, che impone l'accensione dei singoli mortaretti e delle batterie (a Genova note come riondini) con un'asta dotata di miccia. Purtroppo non ci risulta che l'usanza venga attualmente perpetrata.

"Capitolo 14 - Sù e giù per Orvinio  [...]  Nei locali del Municipio di Orvinio si trovano circa un migliaio dimortaretti di acciaio, ivi compresi i cosidetti mortaroni, alcuni dei quali tre o quattro volte più grandi dei normali ed uno di dimensioni ancora più grandi, della capacità di circa tre litri che viene esploso per ultimo a conclusione della sparatoria che si effettua nelle grandi feste e quindi il suo colpo è infinitesimamente più forte dei fratelli minori.
Essi sono di acciaio fuso di un solo pezzo a forma cilindrica con la base un pò più ampia in modo da stare bene in piedi.
Nella parte superiore sono a bocca aperta mentre quella inferiore è a fondo chiuso; un foro di circa 5 millimetri di diametro è praticato nella parte inferiore a circa un centimetro dalla base ed all’altezza dl piano del fondo interno attraversando la parete in senso orizzontale, comunica con l’esterno.

Le loro dimensioni sono circa le seguenti: altezza centimetri dieci, larghezza interna centimetri tre, esterna quattro; alla base centimetri cinque.
Si caricano per circa la metà inferiore con polvere pirica e per il resto calcina compressa a suono di solenni martellate; fra la polvere e la calcina si introduce un pezzo di carta qualsiasi. Si collocano su una strada o zona periferica (ad Orvinio di solito vengono sparati o in via della Passeggiata da Piazza Girolamo Frezza al Torrione oppure in cima al Colle della Guardia) con il foro rivolto ad una sola parte già prescelta e si pongono ad una distanza che varia da centimetri 50 ad un metro.
Per ciascun mortaretto si mette un pò di polvere pirica a terra in corrispondenza del foro e questo è già stato riempito di polvere stessa, avendo cura che la comunicazione delle polvere esterna con quella interna, attraverso il foro, sia perfetta.
Al momento dello sparo il fuochista munito di una canna lunga circa un metro e venti centimetri, munita di miccia accesa alla estremità inferiore, dà fuoco alla polvere esterna causando lo sparo dei singoli mortaretti alla distanza di qualche secondo uno dall’altro senza interruzione.
Le cosidette batterie (volgarmente battagliere) sono costituite da un numero a piacere di mortaretti (normalmente da venti a cinquanta o giù di lì) vengono collocati in circolo irregolare con il foro rivolto nella parte interna ed alla distanza di circa trenta centimetri uno dall’altro.
Tutti i mortaretti del circolo vengono uniti con una linea continua di polvere pirica ed il fuochista, accostando la miccia in un punto qualsiasi della linea della polvere del circolo, si pone in disparte;
appiccato il fuoco, i mortaretti della cosidetta batteria, esplodono con grande fragore quasi simultaneamente.
Per ogni sparatoria si formano più batterie ad una certa distanza una dall’altra, in modo che dopo sparata la prima, prima di giungere alla seconda vi sono fra di esse gli spari dei mortaretti singoli.
A conclusione della sparatoria si pone sempre una batteria più numerosa forse di un centinaio di pezzi ed allora risultando il circolo più grande si pongono anche mortaretti nell’interno di esso a croce o in linee orizzontali ma tutti collegati con la polvere pirica; nel punto opposto a quello in cui verrà appiccato il fuoco si fa una diramazione con polvere lunga circa un metro dal circolo ed in contatto con esso ed alla estremità esterna si colloca il più grande mortarone che esplode per ultimo.
Lo sparo di questi coincide presso a poco quando durante le processioni religiose il Santo portato in processione risulta nel giro di ritorno in prossimità di Porta Romana.
I mortaretti sono stati acquistati nel modo seguente e tutti prima dell’anno 1860, anno in cui Orvinio cessò di appartenere allo Stato Pontificio e venne incorporato nello Stato del Regno d’Italia.
Nello Stato Pontificio tutti i negozi erano privative, e quindi vi era un solo caffé, una sola bettola, una macelleria, una pizzicheria, un forno, ecc..
Era consuetudine che ogni anno ciascun appaltatore di singola privativa doveva acquistare a proprie spese un nuovo mortaretto e regalarlo al Municipio onde aumentarne il numero e sostituire quelli che eventualmente scoppiavano, si perdevano durante gli spari o venivano sottratti. Questo è un dettaglio preciso che mi è stato riferito da molte persone da me interpellate e che hanno vissuto l’epoca prima del 1860."

Scorrendo poi i motori di ricerca e' possibile imbattersi nel sito della Comunità Montana "Versante Tirrenico Meridionale" (comunitamontanavtm.it), costituita da nove comuni della provincia di Reggio Calabria (Delianova, Sinopoli, Molochio, Sant' Eufemia D'Aspromonte, Santa Cristina D'Aspromonte, Cosoleto, Scido, Varapodio, Oppido Mamertina). Quivi si trova la pagina dell' "Itinerario degli antichi mestieri", in cui si puo' leggere quanto riportato nel riquadro sottostante. Appare notevole la specificazione distintiva fra il  mestiere di fochista e di "mascularu" indicante una curiosa separazione dei ruoli. Appare altresì curioso che il "mascularu" sia citato nell'elenco dei mestieri accanto ad altri artigiani a tempo pieno, implicando che vi fossero persone che svolgevano tale attività in forma redditizia: per poter sostentare posti di lavoro la tradizione dei mascoli doveva essere estesamente diffusa.

La devozione popolare nei paesi aspromontani è tutt'oggi molto forte ma un secolo fa le feste religiose patronali erano un vero e proprio evento tanto che la comunità popolare si manifestava in tutti i suoi aspetti in tali occasioni. Le processioni religiose e le feste patronali venivano accompagnate sempre da rappresentazioni musicali: dalla "banda pilusa" (piccolo complesso di strumenti rusticani) le prime, formata dall'organista, bandista e dal campanaro; mentre il "tamburinaru"(suonatore del tamburello) "francasciaru" (suonatore di grancascia) e il "ciaramejaru" (suonatore di zampogna) rallegravano le seconde. Vi erano poi : lo scarparo, il sellaio, il ramiere, il calderaio, il vasaio, il cerchiaio, il carbonaio, il caraiolo ("ciraru"), il "fochista", il "mascularu" che caricava e sparava i mortaretti ("masculi").

Un'altra testimonianza delle sparate calabre la dobbiamo agli "Appunti di Storia Oppidese a cura di Antonio Roselli" , studi storici  tratti dal mensile illustrato “Storicittà”, di cui si riporta nel riquadro seguente un breve estratto. Trattasi di Oppido Mamertina, in provincia di Reggio di Calabria, da non confondersi con Oppido Lucano, in provincia di Potenza. Qui la sparata di mortaretti veniva definita "batteria", facendo pensare ad una disposizione a ranghi serrati molto più concentrata della attuale sparata ligure. Inoltre essa era curiosamente accesa sulla piazza antistante l'edificio di culto prima che l'immagine sacra entrasse in chiesa, al contrario di quanto avveniva nella maggior parte dei casi analoghi, in cui la sparata salutava l'uscita dell'immagine sacra.

La tradizionale Fiera dell’Annunziata nella Oppido ottocentesca [...].

Il 25 Marzo, nell’ottocento, indicava un giorno di grande festa che veniva identificato come Festa della Gratitudine per ringraziare la Patrona per un prodigioso avvenimento dovuto ad un miracolo svoltosi in un momento di pestilenza nella Oppido cinquecentesca. [...]. La particolare Batteria che veniva attuata prima che l’immagine della Patrona entrasse in chiesa  era composta da mortaretti in ferro disposti in fila lungo la piazza [...].

Anche nei dintorni di Oppido Lucano si usavano mortaretti a scopo rituale. Il sito starttel.it  riporta il testo dell'opera di Isabella Palazzo "L'alimentazione lucana dall'Unità d'Italia ai giorni nostri". Al capitolo primo viene citato un interessante estratto da G. Bronzini, "Vita tradizionale in Basilicata" (Montemurro Editori, Matera, 1964, pagg. 328-334), in cui l'autore descrive lo svolgimento del desco nuziale. In quel di Grottole (comune della provincia di Matera che nel 2008 secondo l'Istat annoverava 2.461 abitanti ) i mortaretti accompagnavano le fucilate per richiamare a tavola gli invitati, sottintendendo probabilmente un'ovvia minaccia verso chi non avesse apprezzato la generosità dei padroni di casa.

A Oppido e a Grottole <<siccome si sposava consuetudinariamente nelle ore pomeridiane>>, il pranzo (detto a Oppido "nozza") aveva luogo nelle prime ore della sera; a Grottole <<annunziavasi con forti colpi di fucile, seguiti dallo sparo di altri mortaretti >>; e consisteva <<per lo più in maccheroni di casa (al ferro), chiamati a Grottole "fricieddi", conditi con molto formaggio e "zuchillo di ragù", e serviti in abbondanza; pollame a ragù ed arrostito, insalata, "fellata di sauzizza" (affettato di salame), noci, ulive, fichi secchi e simili; il tutto innaffiato da un buon vino paesano, servito in orciuoli di creta patinata>>, detti "rizzuli", o addirittura i fiaschi di legno col cannello... >>.

Altra interessantissima pagina è quella, riportata in estratto nel riquadro seguente, dell' "UNIONE OPERAIA ESCURSIONISTI ITALIANI - Sezione "Antonio Tessa" - RIPA DI VERSILIA" (all' indirizzo uoei.it/ripadiversilia/apuane/tradizioni/credenze.htm). Trattando delle tradizioni del comprensorio apuano, il curatore riporta la descrizione di un rituale pirico pressoché identico, negli artifizi e nella strutturazione, alle attuali sparate di mascoli liguri. Inoltre lo stesso curatore esordisce con un'affermazione quanto mai sentita da chi ancor oggi allestisce le sparate: alla scomparsa della tradizione "probabilmente, visto che si maneggiava un buon quantitativo di polvere pirica, hanno contribuito le difficoltà burocratiche per i permessi" . A Sori abbiamo avuto modo di saperne qualcosa.

Una tradizione oramai scomparsa è quella della gazzarra durante le processioni solenni. Probabilmente, visto che si maneggiava un buon quantitativo di polvere pirica, hanno contribuito le difficoltà burocratiche per i permessi. La gazzarra era una lunga sequenza di scoppi di mortaretti sistemati lungo strade di periferia che terminava con lo "strepito" , lo scoppio in rapidissima sequenza di un gran numero di mortaretti che terminava col gran botto finale dell'apposito mortaretto gigante. La preparazione dei mortaretti durava ore ed era piuttosto pericolosa; si iniziava frantumando la polvere pirica venduta in grossi grani, ad operazione terminata venivano riempiti i mortaretti e tappati "borati" con stoppacci di carta pressati con martelli di legno per evitare qualsiasi scintilla (immaginatevi le conseguenze!). Quando tutti i mortaretti erano caricati venivano trasportati, e pesavano assai, sul luogo della gazzarra e sistemati stabilmente sul terreno ad una certa distanza in modo che tra uno scoppio e l'altro passassero alcuni secondi. Erano uniti tra di loro da uno strascico di polvere pirica che una volta accesa portava la fiamma lungo tutto il percorso facendo scoppiare, in sequenza, tutti i mortaretti. Era gran vanto di tutto il paese una gazzarra ben riuscita, mentre se un certo numero di mortaretti non scoppiava, o se lo strepito non riusciva, era motivo di pesante frustrazione. La cerimonia terminava con le campane che suonavano a festa.

Infovizzini.it ci riporta a quella che fu la"Guerra di Santi" nella descrizione letteraria del grande romanziere Giovanni Verga. Qui viene raccontato il feroce agguato che San Pasquale ed i suoi bravi tennero agli odiatissimi fedeli di San Rocco. Gli aggressori tentarono di cammuffare le loro recondite intenzioni attribuendo lo scoppio accidentale delle ostilità all'attività provocatoria di alcuni elementi sparsi. Il Verga tuttavia afferma, ancorchè palesandolo tra le righe, la deliberata premeditazione dell'atto da parte dei seguaci di San Pasquale oramai ebbri della propria bile per la grandiosità dei festeggiamenti organizzati dal comitato avversario. E' da notare il fatto che con duemila mascoli, allora come oggi, la sparata fosse considerata già di dimensioni notevoli.

Tutt'a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, un gran numero di ceri accesi tutt'intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde una parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradicie fin sotto il naso di San Rocco benedetto. Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all'ospedale, i più riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornò in chiesa di corsa più che a passo di processione, e la festa finì come le commedie di Pulcinella.
Tutto ciò per l'invidia di que' del quartiere di San Pasquale, perchè quell'anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c'era persino uno stendardo nuovo, tutto ricamato d'oro, che pesava più d'un quintale, dicevano, e in mezzo alla folla sembrava una «spuma d'oro» addirittura. Tutto ciò urtava maledettamente i nervi ai devoti di San Pasquale, sicchè uno di loro alla fine smarrì la pazienza, e si diede a urlare, pallido dalla bile: «Viva San Pasquale!». Allora s'erano messe le legnate.
Certo andare a dire «viva San Pasquale» sul mostaccio di San Rocco in persona è una provocazione bella e buona; è come venirvi a sputare in casa, o come uno che si diverta a dar dei pizzicotti alla donna che avete sotto il braccio. In tal caso non c'è più nè cristi nè diavoli, e si mette sotto i piedi quel po' di rispetto che si ha anche per gli altri santi, che infine fra di loro son tutt'una cosa. Se si è in chiesa, vanno in aria le panche; nelle processioni piovono pezzi di torcetti come pipistrelli, e a tavola volano le scodelle.[...] (da «Vita dei campi», 1880).

Informa il curatore della pagina che questa:

Era solo l'inizio di una novella del Verga che descriveva come allora si vivevano i giorni di festa, le rivalità tra i devoti di San Rocco e quelli di San Pasquale.
[...] Il fulcro della disputa era 'a maschiata, lo sparo di fuochi pirotecnici, siamo intorno agli anni '40, che di tecnico avevano ben poco, infatti allora non si sparavano gli odierni mortaretti colorati ma si facevano esplodere "i maschi" una sorta di piccolo cilindro leggermente schiacciato, con un piccolo foro sulla parte superiore da dove, "u mascaru", inseriva, pressandola, della polvere pirica che fungeva anche da miccia; "u mascu" veniva così posizionato a terra ed acceso, precedendo il simulacro e tutta la processione, l'accensione avveniva grazie ad un cordoncino di stoffa arrotolato ed impregnato di polvere pirica, a sua volta attaccato ad un bastone (di solito una canna da fiume, per la sua leggerezza e manovrabilità) della lunghezza tale da dare la possibilità "o mascaru" di mantenersi ad una distanza di sicurezza, visto che appena accesso "u mascu" esplodeva producendo un forte boato e saltando per il rinculo a circa due metri di altezza.
Il rumore che provocava l'esplosione era assordante tanto da ridurre notevolmente l'udito del "mascaru", ma era proprio quello che si voleva ottenere, un forte boato per onorare la magnificenza del Santo in processione e dimostrare ai confratelli "nemici" di cosa erano stati capaci di organizzare.
Con il passare del tempo, siamo intorno agli anni '50, "u mascu" fu sostituito dal mortaretto che veniva lanciato in aria tramite un semplice tubo di ferro cavo [...].

Il curiosissimo mascolo di Vizzini, a differenza dei mascoli liguri, non aveva il focone ma veniva singolarmente acceso dal fochino tramite la bocca della canna.

Sparate notevoli si svolgevano presso il Santuario della Madonna di Termine in Pentone (CZ) il cui sito viene citato testualmente nel seguente riquadro. Viene fornito un interessante dato statistico: nel 1843 a Pentone si spararono seimila mascoli in una festa sola, quantità veramente ragguardevole e paragonabile alle più grandi sparate attualmente svolte nel Levante genovese. Interessante è anche il fatto che "i festeggiamenti si svolgevano con un programma molto simile, nelle grandi linee, a quello attuale". Non sono tuttavia riportate informazioni precise sull'attuale eventuale persistenza di una tradizione pirotecnica che utilizzi i mortaretti in ferro.

Dai citati documenti è da ammettere, come si è detto, che negli ultimi anni del '600 e nella prima metà del '700, la festa in onore della SS. Vergine delle Grazie si celebrava solo a Pentone e consisteva quasi esclusivamente in cerimonie religiose. Non è da escludersi, però, l'ipotesi che in epoca antecedente si celebrasse anche a Termine [...]. All'inizio dell'800 e, probabilmente, anche nella seconda metà del '700, dopo la ricostruzione della Chiesa Rurale, i festeggiamenti si svolgevano con un programma molto simile, nelle grandi linee, a quello attuale.
La seconda domenica di settembre la Sacra Immagine veniva portata in processione al Santuario di Termine [...]. La partenza, l'arrivo della Madonna, la <<confrurita>>, le benedizioni venivano salutati dal suono delle campane e dal crepitio dei « maschi » (mortaretti). Nel 1843 furono sparati 3.500 « maschi dai devoti particolari » e altri 2.500 « a spese della Procura ».

Possiamo a questo punto formulare alcune congetture. Innanzitutto il cannone a mascolo era diffuso in tutto il Vecchio Continente, e quindi l'estensione dello stesso all'uso rituale era in linea di principio alla portata di tutti gli europei. Tale uso è particolarmente documentato per quanto riguarda l'Italia, dalle Alpi alla Sicilia, da fonti letterarie inequivocabili oltre che da una notevole messe di cronache e memorie minori. L'uso del mascolo rituale, sotto i piu' disparati nomi, era dunque in passato molto diffuso. Notiamo tuttavia nelle parole di Stendhal l'atteggiamento del turista ottocentesco di nobili natali che si rivolge ai suoi compatrioti per descriver loro un'usanza forestiera stravagante e completamente sconosciuta presso la madrepatria. Lo scrittore non fa riferimento ad alcuna altra nazione in cui potrebbe aver assistito a qualcosa di simile; indubbiamente se ciò fosse accaduto Stendhal, che un po' vanesio lo era,  ne avrebbe parlato a mo' di sfoggio di erudizione e conoscenza del mondo. Quindi i casi sono due: o in Francia e nelle altre contrade visitate dal letterato (che, è bene rammentarlo, svolgeva attività diplomatica ed era quindi sempre in giro) l'usanza era già desueta al punto di cancellarne la memoria folclorica, o non si è sviluppata per nulla, nel qual caso il mascolo rituale sarebbe un fenomeno puramente italiano.


In giro per l'Italia in cerca di botti e sparate

Nonostante il quasi completo oblio delle tradizioni piriche legate al mascolo, in alcuni luoghi d'Italia sopravvivono usanze molto simili all' "antico mortaletto ligure". Ne citiamo qui solo alcune, pubblicizzate su internet.

La festa dei Trombini (festa della SS. Trinità a San Bartolomeo delle Montagne, frazione di Selva di Progno - Verona): riportiamo una sintesi (con inserto fotografico) della pagina lessiniapark.it/sagre/2/2.html dedicata a questo pittoresco rito, per lo svolgimento del quale è stata costituita una apposita associazione pirotecnica. Citandone il sito ufficiale (itrombini.it), attualmente a San Bortolo delle Montagne una nutrita schiera di pistonieri o trombonieri (gli sparatori di questa arma di cui viene sottolineato dagli autori il carattere inoffensivo) perpetuano le antiche usanze dei loro avi, partecipando con i loro schioppi a rendere liete le feste del proprio paese e dei paesi della provincia di Verona e di altre città del Veneto, venendo invitati anche all’estero per rendere più interessanti e spettacolari le varie occasioni di festa.

«In occasione della Festa della S.S Trinità (la domenica successiva alla Pentecoste) si tiene a San Bartolomeo delle Montagne la Festa dei Trombini, piricamente patrocinata a partire dal 1976 dall' Associazione Trombini di San Bortolo che ne ha fatto una Festa dei trombini, mentre in precedenza era soprattutto una festa religiosa. [...] Il trombino ha la funzione di produrre un forte rumore ("botto") con fumo,  secondo un rituale di "scongiuro" contro gli spiriti maligni e le avversità, ma anche con un significato di festa e gioia. La presenza dei trombini è attestata in varie zone della provincia di Verona da alcuni secoli, ma in particolare in Lessinia.

        

L`uso del trombino segue oggi un particolare cerimoniale. Prima dello sparo vi è la sfilata dei trombini, lo schieramento ed il caricamento (foto a sinistra), cui sovritende un comandante:  i "trombonieri" in costume, coi pezzi in spalla, marciano in colonna preceduti da bandiere e labaro portati da ragazze in costume e da uno o due suonatori di corno. Lo schieramento avviene in una zona adatta, lontana dal pubblico, con i "trombonieri" disposti a semicerchio ed i trombini collocati a terra. Il caricamento e lo sparo richiedono notevole esperienza: il trombino si carica versando una prima piccola dose di polvere nera con grafite nella canna, distribuita col misurino dal comandante. Con una bacchetta di legno si batte sul fianco del trombino in modo che la polvere  riempia bene il cannello e che arrivi al porta-capsula dove batte il cane. Una seconda dose di polvere nera da mina viene poi distribuita sempre dal comandante (in ragione diversa a seconda della grandezza del trombino) e compressa con asta e mazza di legno assieme ad alcuni brandelli di giornale. Il comandante distribuisce quindi una capsula d`innesco, detta "patrona". Ogni pistoniere per ripararsi dallo scoppio e dalle bruciature ha avvolto sulla gamba sinistra un pezzo di sacco ("s-ciavin"). Dopo il suono del corno che avverte gli spettatori dell`imminienza dello sparo, ogni tromboniere solleva l`arma in braccio con la canna rivolta al terreno ed il dito posto sul grilletto. Gli spari si  susseguono singoli od in copia, o a tre, secondo gli ordini dal comandante. Lo sparo (foto a destra) è spettacolare ed assordante come il botto di un cannone, fragoroso e fumoso. Il trombino inizialmente rivolto verso il basso, per il forte rinculo viene sospinto in alto e questa manovra va controllata dallo sparatore accompagnandola con un mezzo giro del busto ed una rotazione di 180° sollevando il pesante pezzo sulla spalla sinistra. Il tutto in modo da non essere gettati a terra dal rinculo. Dalla nube si spande un acre odore di polvere da sparo. I trombini si sparavano e si sparano ancora durante il "Gloria" del Sabato Santo, durante le feste e le sagre locali in Lessinia, l`ingresso di nuovi parroci ed alcuni matrimoni.»

I trombini sono diffusi un po' in tutta la Lessinia Cimbra. Si tratta della zona geografica situata per la maggior parte nella provincia di Verona e parzialmente in quelle di Vicenza e Trento, solcata da numerose valli e comprendente nel suo seno la rinomata Valpolicella. Analogo appuntamento pirotecnico si tiene a Marano di Valpolicella: ogni anno la domenica seguente San Marco (25 aprile) la popolazione  celebra la festa della Beata Vergine della Valverde  (maranovalpolicella.it). Riportiamo testualmente nel primo dei riquadri seguenti un estratto dalle pagine web di Marano, in cui appaiono compartecipare ai festeggiamenti anche i già citati trombonieri di San Bortolo, e l'analoga associazione dei Pistonieri dell'Abbazia di Badia Calavena (ipistonieridellabbazia.it), il cui sito riporta una precisa descrizione della storia e della pratica dell'arte dei trombini, qui citata in estratto nel secondo dei riquadri seguenti.

         
 
[...] I tromboni sono pezzi di artiglieria ad avancarica, originari della montagna ed opera di pazienti artigiani. Si rifanno gli archibugi o le colubrine del 1600 e del 1700. Queste armi, cui vengono assegnati nomi assai caratteristici, pesano circa 50 kg e sono composte da un grosso calcio di legno con base assai larga e da una canna la cui bocca si apre verso l’esterno richiamando la forma d’una campana. Gli esemplari più belli, opera di valenti artigiani, hanno la parte lignea finemente decorata e abbellita da parti metalliche, mentre la sezione terminale della canna reca in fusione rilievi di figure e di fiori. [...] Come si vede dalle foto [sopra, n.d.r.], l'uomo punta a terra il trombone. Premuto il grilletto, con l'esplosione fumosa e fragorosa, sfruttando la forza di rinculo, solleva il pezzo girando su se stesso. [...] Quest'anno (2005, n.d.c.) hanno onorato la Madonna con gli spari dei loro tromboni, oltre che il locale gruppo, anche i gruppi di Badia Calavena ("Gruppo Pistonieri dell'Abbazia", n.d.c.) e San Bartolomeo delle Montagne.
 

Che cos'é: il Trombino della Lessinia Cimbra, detto anche Pistone o più semplicemente "sciopo da sagra", è un arma ad avancarica con innesco a "luminello" più efficace dell' antico sistema a pietra focaia. Dal punto di vista legale è un arma da sparo a tutti gli effetti anche se per dimensioni, conformazione e tecnica può essere caricata solamente a salve dovendo per forza essere puntata esclusivamente a terra. Questo la rende inoffensiva come è ampiamente documentato dalle cronache di una tradizione pluricentenaria.

Dove si è evoluto: le fonti storiche e le più antiche testimonianze fotografiche dicono che il Trombino si è evoluto e ha assunto la forma e le dimensioni attuali in un'area geoculturale molto ristretta costituita dall'alta Val di Chiampo e della Lessinia Cimbra dei XIII Comuni Veronesi della quale Badia Calavena è stata per lungo tempo il capoluogo. Le vicende economiche che hanno ridotto i flussi migratori verso altre località contigue hanno contribuito ad allargare l'areale fino ai primi decenni del '900. Oggi, dopo un periodo di declino nel secondo dopoguerra, il Trombino è stato rivalutato e divulgato dall'attività associativa dei "Pistonieri dell'Abbazia" di Badia Calavena e da altre associazioni.

L'origine: non esistono documentazioni certe circa l'origine del Trombino ma si può ragionevolmente ricondurle ad un evoluzione delle colubrine spagnole e veneziane. Come nei secoli abbia perso la sua connotazione di arma per assumere quella di strumento di festa non è ancora dato di sapere con certezza. Le genti dell'altopiano e delle montagne prospicienti i passi che dall'ex confine del sud Tirolo arrivano in Lessinia hanno spesso assolto funzioni di guardiani armati dei valichi. La dimestichezza con polvere da sparo ed armi ha sicuramente contribuito, attraverso i numerosi cambiamenti socio politico militari, alla decantazione di questo meraviglioso strumento folkloristico diventò nei secoli sinonimo di forza fisica ed orgoglio delle genti Cimbre.

Quando si usa: nel termine "sciopo da sagra" si intuisce la funzione ancor oggi tipica del Trombino. Il fragore degli scoppi segna l'inizio delle feste paesane e delle sagre, da il vie a a gare di atletica o più modeste tenzoni popolari, saluta i novelli sposi, esprime la gioia per la nascita di un figlio, festeggia il santo patrono e le ricorrenze civili. E' storicamente documentato che lo sparo dei Trombini accompagnava i riti della Settimana Santa e di altre feste religiose, accoglieva il nuovo anno, i nuovi parroci ed i vescovi in visita pastorali.

 
Dal Piemonte arriva una testimonianza metallurgica a proposito dei complessi minerari di Traversella (comune che conta oggi circa quattrocento abitanti della Val Chiusella, nel Canavese, in provincia di Torino) chiusi allo sfruttamento minerario nel 1971 e oggi di interesse puramente mineralogico e turistico. Riportiamo nel riquadro seguente un estratto della pagina internet   digilander.libero.it/mineralweb/traversella.htm a cura di Tiziano Berardi, in cui si cita incidentalmente come curiosità storica un'attività pirotecnica che utilizzava mortaretti in ferro, di estrazione e lavorazione locale, per uso rituale. Curiosamente i mortaretti di Traversella si sparavano sul campanile anzichè al suolo.

[...] già nel tempo feudale questo giacimento veniva coltivato dalle famiglie locali. Ogni famiglia aveva il suo "croso" (buco dal quale estraevano il minerale). [...] A trasportare il minerale erano solitamente le donne e i ragazzi, che con enorme fatica lo portavano fuori dai "crosi" per ammucchiarlo nel piazzale. L'escavazione divenne con il tempo indiscriminata e vi furono così parecchi crolli con la conseguente perdita di vite umane. Questo fece si che le escavazioni venissero successivamente regolamentate eliminando così anche i continui diverbi tra famiglie, a volte anche sanguinosi, per lo sconfinamento in miniera. 
Il ferro estratto serviva principalmente per la costruzione di arnesi agricoli e ceppi per ruote dei carri. Curiosità storica: questo ferro veniva anche utilizzato per la costruzione dei "mortaretti", una sorta di ceppi in ghisa con un buco centrale e un piccolo forellino al lato della base. Veniva riempito di polvere nera e innescato con la fiamma facendo così esplodere la carica. Servivano nelle feste e generalmente si facevano brillare le cariche dalla sommità del campanile.


Sarà cordialmente gradito e degno di amicizia chiunque volesse segnalare al curatore luoghi, eventi e tradizioni (passate ed attuali) inerenti alle sparate rituali di mascoli, mortaretti e simili artifizi, all'indirizzo webmaster@sori15agosto.it. Ogni fonte verrà doverosamente citata.